sabato 10 ottobre 2009

Adelchi, un fatto mondiale


Il calzaturificio Adelchi
è stato un po’ la “Fiat del Salento”, un vero e proprio miracolo imprenditoriale. Il fatturato annuo dell’azienda era trainante nell’intero comparto produttivo e assorbiva la maggior parte della manodopera del settore. Da tanti ragazzi veniva vista come la speranza del “posto fisso”. Nel 2001, infatti, il gruppo figurava tra i più grandi calzaturifici italiani, arrivando a esportare dieci milioni circa di calzature in tutto il mondo.

Oggi la situazione è completamente mutata. Il piano di ristrutturazione aziendale e le procedure di mobilità hanno ridotto migliaia di lavoratori espulsi dal ciclo produttivo.
Ma dov'è sta l’imbroglio? I dati fanno riferimento a un passato morto e sepolto. Malgrado il fatturato e la produzione sono pressoché inalterati, si assiste a una drastica diminuzione della manodopera locale. In termini tecnici si parla di “esuberi”. Ovvero esternalizzazioni selvagge di intere fasi della produzione, di trasferimenti massicci di lavorazione, investimenti e manodopera nei paesi asiatici, dove il costo della forza lavoro è sensibilmente più basso e dove è possibile lo sfruttamento senza incorrere in alcuna vertenza sindacale. Va naturalmente aggiunta l’abbondante dose di ammortizzatori sociali concessi dallo stato, soldi pubblici spesi per consentire lo smantellamento degli opifici salentini e la perdita definitiva di migliaia di posti di lavoro, in nome di una “generica” ristrutturazione aziendale, di una “fantomatica” riqualificazione del personale, e di una ancor più “immaginaria” politica di valorizzazione del marchio.

Le leggi di mercato non guardano in faccia nessuno - così dicono. E lentamente assistiamo impotenti a un'involuzione dell’economica locale. Oggi i dati affermano che ormai più la metà delle scarpe esportate viene prodotta all’estero. Nel Salento è rimasta solo la gestione commerciale e logistica, che richiede poche unità di personale. E se Adelchi mantiene i propri stabilimenti nel territorio italiano è per la sola ragione che le scarpe devono essere vendute sul mercato come “Made in Italy”.

Si tratta di strategia aziendale. In realtà basta una sola fase della produzione venga effettuata in Italia per ottenere il marchio. Le calzature salentine lavorate in gran parte all’estero, vengono importate in Italia e rivendute sui mercati con il marchio “Made in Italy”. Ma gli acquirenti non sono stupidi: sanno che dietro il marchio Adelchi si nasconde il Bangladesh o l’Albania. Di conseguenza il valore della scarpa scende, diminuendo anche quello delle esportazioni. Un fenomeno che potrebbe essere contrastato con il disegno di legge depositato e mai discusso in commissione parlamentare per il “Full Made in Italy”. Una proposta normativa che se applicata, garantirebbe il riposizionamento del marchio e della qualità del prodotto salentino.

Ma il processo di delocalizzazione continua inarrestabile. Nel paese di origine, migliaia di lavoratori vengono privati del loro posto di lavoro iniziale e nel paese in cui la produzione è stata trasferita, migliaia di nuovi lavoratori vengono sfruttati a fronte di un salario ridicolo. E oggi al 2009, gli operai italiani si trovano a difendere a denti stretti il proprio posto. Anche sui tetti del municipio.
“Bisogna che tutto cambi affinché nulla cambi” diceva il principe Tancredi nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Tanti, troppi i tavoli di concertazione convocati a Lecce, con qualche una tappa intermedia a Roma, per sortire a un solo e drammatico risultato che ai più sembrava la migliore delle soluzioni: la proroga della cassa integrazione. Fiumi di denaro pubblico spesi per mandare definitivamente a casa migliaia di lavoratori. Un errore clamoroso da parte delle istituzioni versare nelle casse dell’impresa milioni di euro di ammortizzatori sociali, consentendo alla stessa di esportare il lavoro all’estero.

Ormai “les jeux sont faits” (i giochi sono fatti) e non è possibile limitarsi a fare i notai delle crisi economiche. L’Adelchi continua a produrre 10 milioni di paia di scarpe all’anno. Qui, ne è rimasto solo il ricordo dei pullman che portavano 2.000 operai e della sirena della fabbrica che scandiva i tempi di un paese intero. I stabilimenti “veri” sono in Albania, in India, in Etiopia.
La crisi ha picchiato duro, preferendo le distanze. I prezzi di tomaie, suole, colle e scatole si decidono a migliaia di chilometri di distanza. E se c’è bisogno di un uomo per cucire, incollare, lucidare - semplice - basta andare in Egitto, in Romania o in India.

Fonte :«Diciamo», anno III, n°77 del 10.10.2009

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