venerdì 8 gennaio 2010

Un antico Pd

Di quale morte perirà questo Pd? La rissa villana che si è accesa in Puglia per la contesa della candidatura regionale tra Emiliano e Vendola (ora Boccia) dimostra l’ambigua e fragile identità di questa realtà politica. Non si avrebbe nulla da ridire se la dialettica partitica fosse originata dalla passione e dall’interesse di dare il meglio di sé per questa terra. Macché! Grottesco è assistere al vistoso scialacquamento del “patrimonio di famiglia”, cioè dell’idea (tanto sponsorizzata da mister Veltroni) di un partito nuovo, fatto di cose nuove, di uomini nuovi con una pratica della politica non più legata alle tradizioni di clientela o di apparato, che furono tipiche della storia democristiana, socialista e comunista.

Finora la gente è stata trastullata dagli aspetti folkloristici della politica, sulla ripetizione continua delle liturgie anti questo e anti quello, promettendo che da qualche parte ci fosse la bacchetta magica per raddrizzare la situazione solo se si fosse votato il partito giusto.
In una situazione giudicata ingestibile con le anacronistiche logiche di sistema, quei pochi assennati della politica hanno capito che, invece, sono necessarie, anzi irrinunciabili, le larghe intese. Si sa di cosa questo paese avrebbe bisogno. Per esempio, cestinare un bicameralismo di vecchia maniera e un parlamentarismo ormai svilito dalla mancanza di libertà della scelta dei rappresentanti e in continuo sotto il ricatto dal premio di maggioranza. Questioni che costituiscono un vero handicap per il buon funzionamento di uno stato e che, nelle attuali condizioni, è incapace di soddisfare le richieste legittime dei cittadini.
Un buon politico sa che la ricerca di soluzioni misura la credibilità di una classe politica. La credibilità è, infatti, un bene prezioso e deriva sempre dall’impegno nel concreto miglioramento del sistema di convivenza, sia a livello locale che nazionale.

«Certi “inciuci” farebbero bene al paese». Parola di Massimo D’Alema che rilancia il confronto tra Pd e Pdl. Non l’avesse mai detto: c’è chi ha già urlato, inorridito, allo scandalo.
Quante ferite e lacerazioni hanno prodotto “a sinistra” i compromessi. In passato c’era “quello storico” per il quale Berlinguer venne aspramente contestato e, nonostante, questo percorso, non riuscì mai a realizzarsi, il partito dovette pagar cassa in termini di consensi elettorali. Dal ’79 in poi si assistette a una discesa vorticosa del Pci dalle cui ceneri rinacque il moderato Ulivo.
Non meno noto fu il compromesso per l’articolo 7 della Costituzione sui rapporti tra stato e chiesa votato dal Pci di Togliatti nell’Assemblea costituente. E facendo qualche passo indietro con la memoria ci sarebbe anche la famosa “svolta di Salerno” quando nel ’44 il Migliore decise di abbandonare la sua posizione antimonarchica e aprire un varco al governo Badoglio. Come non ricordare Luciano Lama all’Eur e la sua moderna teoria sul salario inteso come “variabile indipendente” o il patto sociale firmato con Ciampi. Tutte vittorie riformiste ma che costarono profonde fratture anche nel blocco del sindacato più intransigente.

Il vero problema che attanaglia l’attuale sinistra è l’azionismo radicale, spina nel fianco del Pd. Una piccola componente di élite intellettuale composta da girotondini e grillini. Un mix di puro giacobinismo di sinistra mischiato all’antipolitica che si alimenta di giorno in giorno di giustizialismo e pone continui veti per un eventuale compromesso bipartisan.
Ma la risposta dei dipietrini e dei massimalisti - puntuta come una lancia – è il solito “non possumus”: no a riforme sulla giustizia, no ad abbandoni del bipolarismo, no a leadership regionali affidate a uomini di altri partiti, no all’asse D’Alema-Letta. Come se un probabile compromesso potesse sporcare la purezza delle proprie di ideologie perché l’inciucio non viene concepito come un incontro a metà tra tesi contrapposte ma “un mercato” in cui le parti vengono meno alla purezza dei loro principi per ottenere vantaggi concreti di basso profilo.
Peccato per loro perché la storia è stata foriera di compromessi: allora la nostra Costituzione dovrebbe aver il sapore di “inciucio” perché originata da un accordo tra comunisti e democristiani.

C’è da chiedersi: ma questo azionismo radicale che si propone come alternativa a Berlusconi è pronto ad attuare patti di riforme istituzionali? Fa pensare che il rifiuto del compresso non sia altro che una scusa, un modo per sottrarsi alle reali responsabilità di governo.
«Non sono mai stato un comunista» ha dichiarato a metà degli anni Novanta in un’intervista Walter Veltroni. È vero. Perché se lo fosse stato, a quest’ora, avrebbe avuto quel lucido pragmatismo tipico di un vecchio comunista.
Stiamo ad attendere. Il tempo potrebbe ridare luce.

Fonte:«Diciamo», anno IV, n°83 del 09.01.2001

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